Questa mattina riflettevo su come la storia tenda a ripetersi.
Non credo sia un cerchio l’immagine corretta della storia, piuttosto una spirale: un avanzamento che però ritorna sempre sugli stessi punti nodali, sulle stesse questioni critiche, come a provare l’umano, la sua capacità di miglioramento.
Credo che questo discorso abbia molto a che fare con le tendenze economiche recenti, e in particolare con il nesso tra globalizzazione e guerra.
Nell’immagine che potete vedere allegata al post, si mostra la tendenza del commercio globale (espresso come lo scambio in beni e servizi sul Pil globale).
Come ricostruisce André Sapir su Bruegel, ci sono state due grandi ondate di globalizzazione:
La prima è iniziata a metà 800, ed è stata “il risultato dei progressi tecnologici nei trasporti e nelle comunicazioni, che hanno ridotto drasticamente i costi delle transazioni, e delle decisioni politiche, soprattutto da parte degli europei, di liberalizzare i propri mercati e di forzare l’apertura di quelli degli altri attraverso il colonialismo o l’imperialismo.” Questa euforia liberal-cosmopolita si è andata a schiantare nelle trincee della I Guerra Mondiale. Da lì seguirono tre decenni di riduzione del commercio globale.
Dopo la fine della II Guerra Mondiale, ricominciò un processo di globalizzazione. Nel 1980 si raggiunse il livello di commercio globale che si era raggiunto nel 1914, cioè si era di nuovo toccato quel livello di integrazione dei mercati raggiunto all’alba della Grande Guerra.
Cosa accadde dopo? Qualcosa di assolutamente inedito. La fase successiva agli anni ’80 è, infatti, chiamata iperglobalizzazione, la quota del commercio estero crebbe molto rapidamente raggiungendo picchi mai visti nella storia umana. Come accadde questo? Scrive sempre Sapir: “per le stesse ragioni che hanno sostenuto la prima ondata di globalizzazione: i progressi tecnologici nei trasporti e nelle comunicazioni e le decisioni politiche – questa volta, però, da parte di Paesi come la Cina e l’India che agiscono in modo autonomo piuttosto che sotto il vincolo di potenze straniere.” Questa nuova ondata permise una divisione del lavoro su scala globale: coi paesi emergenti che divenivano le “manifatture del mondo” e i paesi avanzati che si concentravano sui servizi ad alto valore aggiunto o, peggio, dovevano perire sotto la competizione di costo delle nazioni asiatiche.
Questo processo fu anche favorito dall’entrata della Cina nel WTO nel 2001. Scelta affrettata e, alla fine, discutibile. Si riteneva così di includerla nell’influenza politica occidentale. Al contrario, con meno dazi e controlli, ha colonizzato vasti mercati europei e statunitensi, con la sua manodopera competitiva e il suo rapido progresso tecnologico. In questo periodo, le disuguaglianze tra paesi del mondo sono diminuite mentre sono schizzate quelle interne ai paesi avanzati, con la liberalizzazione dei movimenti finanziari e la competizione della forza-lavoro tra paesi molto diversi.
Dal 2008, dopo la grande crisi, come si può vedere dal grafico, la globalizzazione si è interrotta. La quota del commercio estero ha rallentato o si è fermata. Questo periodo è, infatti, chiamato anche de-globalisation or ‘slowbalisation’. Con il Covid, e ora la guerra in Ucraina, questa fase di cosmopolitismo finanziario ha ancora di più rallentato. Il problema è che ora la Cina sta puntando sui mercati interni e sul settore dei servizi – sostituendo la domanda occidentale – mentre l’Europa, vittima di sé stessa, va ancora dietro a ideologie vecchie e limita il suo rilancio economico e culturale.
Qual è allora il punto? Il punto è che sembra che questo mondo non sappia che vivere due modalità di rapporti internazionali: un’euforia finanziaria o la guerra. Si alternano momenti di grande integrazione – solo economica – a scontri mondiali. La verità, però, è che la guerra è la matrice essenziale di tutti e due i momenti. Lo scontro “sul campo” porta soltanto alla luce questa conflittualità interna, questa volontà di dominio, questa avidità senza confini. La I Guerra Mondiale è stata una lezione tremenda per la cultura europea, ubriacata dalle illusioni positiviste. La lezione, però, è stata presto dimenticata. E si è tornato a credere che liberalizzare i mercati significasse, necessariamente, unire i popoli. Che la crescita della finanza fosse un sinonimo di crescita umana. Che capitalismo e democrazia andassero sempre a braccetto. La realtà non è così.
Per non ricadere nello stesso errore, ma procedere nella curva della spirale in avanti, serve un mutamento di questa prospettiva. L’idea di ridividere il mondo tra un blocco occidentale e un blocco asiatico, il primo dominato dal monopolio del dollaro e della Nato e il secondo dall’espansionismo economico della Cina, non è uno scenario auspicabile. Allo stesso tempo, pensare di colonizzare il mondo sotto un’unica ideologia, si è rivelato un grande fallimento.
Serve una nuova sintesi, un nuovo equilibrio, una nuova coerenza, che unisca pace e sviluppo. E questo non potrà che avvenire grazie a un rilancio politico e spirituale dell’Europa – grande assente di questi anni. Qui ci sarebbe tutta l’energia, la visione e la forza per una grande fase di creatività politica ed economica, che si ponga a servizio autentico per il resto del mondo.
Servirebbe solo dissotterrare questa forza nascosta, portarla fuori, come un pozzo di energia con cui illuminare e scaldare l’inverno.